Una domanda simile può sembrare mal posta se non inutile. Non sappiamo tutti che il Canto popolare è il canto della nostra terra, del nostro vicinato, quello in cui i nostri antenati si sono identificati (e noi con loro), l'espressione più alta della nostra cultura contadina e artigiana, quella che marca decisamente la nostra identità etnica e di cui andiamo fieri? E dove può andare ormai il Canto popolare, se quell'habitat socio/economico/culturale si è definitivamente dissolto?
Ma se c'è una convinzione diffusa fra gli etnomusicologi questa riguarda il carattere diciamo così meticcio del Canto popolare. E non solo per il contenuto dei testi spesso variabili a seconda delle diverse tradizioni orali, non solo per le diverse connotazioni espressive degli stessi testi, ma anche e soprattutto per le innumerevoli influenze che le melodie hanno subito in un contesto geografico che ha visto succedersi e rimpiazzarsi diverse popolazioni e culture nel corso di millenni.
Il Canto popolare è una realtà mutevole, inafferrabile, che veste la lingua o il dialetto del posto e del momento, ma rimanda a quanto di profondo l'uomo ha sperimentato nella sua lunga storia. È la vena tenera del tronco duro dell'esistenza faticosa dell'umanità. È da sempre il canto dei vinti e dei sottostanti (basti pensare al biblico Super Flumina Babilonis, a Lu Soprastante o a Lu polverone di Matteo Salvatore) che mai si trasforma in canto dei vincitori. Sarà udibile finché ci saranno vinti che anelano alla liberazione e alla giustizia, per poi inabissarsi come un lento fiume carsico e riapparire lì dove nuove fatiche saranno da sostenere e alleviare, nuove gioie da partecipare e nuove lacrime da asciugare.
È nostro il canto, nella misura e nei limiti in cui è nostra l'acqua che irriga i nostri campi, disseta l'arsura delle nostre fatiche e lava le ferite della nostra anima. E, come l'acqua, porta con se tutti i frammenti di memoria che conserva e trasmette alla terra su cui si riversa. Ma il ciclo dell'acqua è quanto di più affascinante e inafferrabile conosciamo; guai a fermarne il corso per arrestarla in un luogo ristretto e angusto: diventa putrida e malsana.
Mi sono accostato al Canto popolare materano con lo spirito di chi ha visto affiorare il fiume in superficie e ne disegna liberamente i tratti, privilegiando di volta in volta le espressioni tenere e appassionate, o il lamento lenitivo della fatica e del dolore, o l'allegria sfrenata ammiccante e canzonatoria di eventi festivi. Con l'accortezza di usare un linguaggio flessibile e moderatamente avanzato, adattandolo alle caratteristiche di un coro, I Cantori Materani, che, per essere amatoriale, ha dimostrato di possedere e saper usare tutte le risorse necessarie per sostenere le asperità di una partitura non certo facile.
È stato un lavoro lungo e faticoso quanto affascinante a produrre una partitura che mi auguro sappia entrare nel ciclo di quella corrente vitale e feconda che è la musica popolare per poter ancora irrigare e dissodare terreni che cominciano gradualmente a inaridirsi.