Mariannina Menzano (1908 – 2001)
Rilevante protagonista delle lotte per l’occupazione delle terre incolte negli anni 1948 – 1949. Arrestata, rimase in carcere con Nunzia Suglia e Anna Avena per undici mesi e quattro giorni. Negli anni Cinquanta fu assessore alla Pubblica Istruzione nel Comune di Montescaglioso e attivista dell’Unione Donne Italiane.
Il testo che segue è solo una parte della lunga intervista rilasciata a Aurora Milillo nel 1976.
Allora li hanno chiamati tutti sul comune, questi proprietari terrieri, per chiedere loro se volevano cedere un poco di terre incolte ai combattenti, ai reduci. Tutti si sono rifiutati; allora nella Camera del Lavoro decidemmo: — Dobbiamo fare l’occupazione delle terre! C’era una legge firmata dal quarantasei, di dare le terre incolte ai contadini, ai disoccupati, ma questa legge non veniva posta in vigore, e così… si decise di fare questa occupazione delle terre.
Prima siamo andati nelle terre del comune, tutto è andato liscio. Venivano tutti in massa con i ciucci, con i cavalli, con i muli, con le bandiere, si andava in corteo, venivano donne, bambini, vecchi, giovani, artigiani, anche studenti: una lotta di massa. Quando abbiamo finito con le terre del comune, bisognava andare nella proprietà privata. Il primo giorno siamo andati a Patolino. Quando siamo arrivati a Patolino, c’è un forno di fichi là, io sono salita sul forno dei fichi e ho fatto il comizio alle persone presenti. Poi c’è un casone; mi sono seduta dietro questo casone e ho segnato tutti i nomi delle persone che avevano partecipato alla lotta. Poi la sera, quando siamo ritornati dalla campagna, si veniva cantando l’inno dei lavoratori, l’inno del partito comunista; dopo, quando si arrivava in piazza, come si trovavano con le bestie, chi a cavallo e chi a piedi, si saliva sopra qualche cosa e si faceva un piccolo comizio.; ogni sera si verificava questo, e così si andava avanti. Quando poi è stata la notte che precede santa Lucia, sono venuti a bussare a casa mia. Io avevo mia madre che non stava bene e avevo detto a mio figlio: se vedi che la nonna si sente male, vienimi a bussare. Il ragazzo è venuto a bussare: — Uhé ma’!
Io credendo che fosse mia madre che si sentiva male, ho detto a mio marito: corri, vai ad aprire la porta! Quando mio marito è andato ad aprire la porta, sono entrati un sacco di poliziotti.
— Chi è Menzano Marianna?
— Sono io!
— Dovete venire in caserma!
— Come? Sono stata tutti questi giorni in mezzo al popolo e non siete venuti ad arrestarmi, e volete venire e quest’ora; piantonate la casa ché domani vi seguo!
— No! È una parola! Dovete venire, tu devi…
— Io posseggo una sola stanza, mica mi posso vestire in presenza vostra. Se non uscite fuori io non mi vesto, non mi alzo.
Così poi questi poliziotti sono usciti fuori, si sono messi dietro alla porta finché io mi sono vestita. Poi mi hanno messo sottosopra tutto il cassettone, andavano cercando le armi: Chi me le dava a me le armi? Però avevo dei giocattoli, delle pistole, che mi aveva mandato mio cognato dall’America.
— Abbiamo trovato le armi!
Era la mattina di santa Lucia, il tredici dicembre… Prima presero Vincenzo Castellaneta, poi presero me, Avena Anna, Suglia Nunzia, Miraglia Michele, Padula Luca, Rossetti Pietro, Garbellano Serafino, Cicorella Leonardo.
La mattina quando il popolo ha saputo che noi eravamo in galera, credeva che noi stavamo qui a Montescaglioso. Allora hanno fatto una sommossa. — Vogliamo i detenuti fuori! — Per reprimere questa sommossa è intervenuta la polizia. Noi stavamo già a Bari. Fu in quel tafferuglio che morì il compagno Giuseppe Novello!
Quando siamo arrivati a Bari, hanno telefonato: — Abbiamo acchiappato quei famosi rivoluzionari!
E così siamo stati undici mesi e quattro giorni.
In carcere un giorno venne a trovarci il senatore Milillo e io chiesi l’avvicinamento al carcere di Matera… perché la famiglia doveva sopportare spese per venirci a trovare a Bari. Siamo arrivati nel carcere di Matera, un carcere sporco, umido. L’umidità era tanta, e mi ricordo che a me mi vennero tante chiazze sulle gambe. Eravamo io e Anna Avena; poi è arrivata Nunzia Suglia. Poi dopo sono arrivate delle donne di Irsina, in galera perché avevano lottato contro la legge truffa. Poi, dopo un po’, vennero certe donne di Tricarico o di Grassano perché avevano fatto uno sciopero, e, siccome il maresciallo di quel paese si chiamava Gallo, il popolo aveva fatto un bel gallo, un cartellone con un bel gallo, e aveva scritto “sciò”; allora per questo motivo le portarono dentro a queste poverette. Poi vennero delle altre donne, erano di Acquaviva, per un furto di tabacco; però quelle dopo tre mesi uscirono, e noi restammo a cantare la cicirignòla, undici mesi e quattro giorni. Allora, in questo periodo che eravamo in carcere , una volta venne De Gasperi a Matera, e ci offrirono un bel pranzo, e dicevano:
— E voi siete comunisti e mangiate… accettate il pranzo di De Gasperi?
— Eh! Magari venisse ogni giorno uno di quelli, ché noi il pranzo ce lo mangiamo lo stesso!
Dopo che andammo a Patolino, andammo ai Tre Confini che era proprietà di Prospero Lacava però la tenevano in fitto i fratelli Quinto, allora noi siamo andati là. È venuta una donna a casa:
— Uhè! Mariannina! Come si deve fare?
— Che è stato?, feci io.
— È andata la polizia in campagna, hanno portato in carcere tutti i mariti nostri, come dobbiamo fare?
— Ci dobbiamo mobilitare… uomini, donne e bambini. Incominciate a camminare che io mo’ vengo.
— No! Non ci avviamo se non vieni anche tu! Non ci avviamo!
— Andate ad avvisare almeno la compagna Avena, così pure lei raccoglie gente e andremo, io debbo andare un momento sul Comune.
Dissi alle donne:
— Voi dovete andare avanti… le donne e i bambini, gli uomini dietro! Se troviamo la polizia, di fronte ai bambini non possono fare violenza, e se vedete che lanciano i gas lacrimogeni troverete le pozzanghere d’acqua, bagnatevi i fazzoletti e metteteveli agli occhi, così non vi faranno male.
Quando siamo arrivati, c’era il maresciallo Lo Russo che allora presiedeva la caserma di Monte, e c’era il compagno Candido, c’era il compagno Leonardo Mianulli, c’erano tutti i compagni ai Tre Confini, tutti quanti i dirigenti. Quando poi il maresciallo ha visto che scendeva questa fiumana di popolo, ha alzato gli occhi e ha detto: — È meglio che me ne vado, se no qua succede un eccidio.
Però aveva fatto l’elenco di tutte le persone che stavano là a lavorare chi con i muli chi con gli aratri. La compagna Avena è arrivata prima di me, io non potevo correre per il mal di cuore, e ha detto:
— Comandante, che forse facciamo qualcosa di male qua? Noi vogliamo il lavoro; avete preso il nome di tutte queste persone, ma che facciamo male a qualcuno noi?
— Beh, va bene. Io a voi montesi vi conosco tutti quanti.
Pigliò l’elenco che aveva fatto, lo strappò, lo mise in mano a una donna e disse:
— Ne’, fatevelo fritto, io vi conosco tutti.
Se ne andarono quelli della polizia… Vedemmo arrivare una camionetta di carabinieri. Non si avvicinò. Un carabiniere scese e si accovacciò con un fucile mitragliatore imbracciato. Il capitano venne avanti, si avvicinò a noi.
— Che fate qui? Andate a casa!
— Se non era venuta la polizia qua, noi stavamo ancora a fare i lavori di casa!
— Andate via, andate via!
— Ce ne andremo quando fa notte ché smettono di lavorare!
— Chi sono i vostri capi?
— Siamo tutti quanti capi qua.
— Andatevene, andatevene!
Mi avvicinai e dissi:
— Senta comandante, vada via lei come è andata via la polizia; noi non stiamo qui a provocare disordini; se non fosse venuta la polizia, noi saremmo rimasti nelle nostre case; siamo venute qua per difendere i nostri mariti, i nostri figli. Andate via voi come è andata via la polizia!
Quello non voleva persuadersi, disse:
— Fatemi portare un omaggio al prefetto. Andatevene e dopo un po’ ritornate!
— Non ci fidiamo di voi; nessuno ci assicura che se noi ce ne andiamo voi non piazzate le armi sul terreno; andate via voi come è andata via la polizia!
Finalmente se ne andarono.