Un poeta come Scotellaro, Edizioni della Cometa, 1984

Ritirarsi per qualche ora nel cimitero acattolico in un tiepido diafano pomeriggio di ottobre induce pensieri intimi. Intimi e mutevoli come il cielo della stagione autunnale. In questo singolare fazzoletto di terra sospeso nel tempo e nello spazio, riesci ad estraniarti persino dal traffico di Roma. Qui, a due passi dalla piramide di Cestio – incorporata frettolosamente nelle mura aureliane – quasi quattromila persone dormono l’ultimo sonno senza la benedizione dei successori di Pietro: inglesi e tedeschi i più, ma anche molti americani e scandinavi, russi e greci e altri ancora di altri paesi. Plenipotenziari di Prussia e giovani sedicenni britanniche affogate nel Tevere, patrioti amici di Garibaldi ed il cappellano della sua armata, pittori, musicisti, letterati, soprattutto.

Pensi così, accarezzando cippi e sepolcri, che sono questi segni di culto dei morti a farti sentire per qualche ora autentico cittadino del mondo (dei vivi), e passeggi orgoglioso tra culture. Ti senti più cosmopolita che a percorrere la Fifth Avenue di New York o semplicemente la più vicina Via Condotti. E sorridi del fatto che in questo luogo così carico di suggestioni ti hanno mandato i tuoi figli adolescenti.
Qui si viene a cercare Gregory Corso, il poeta maledetto della beat generation, i grandi romantici inglesi, John Keats e Percy B. Shelley, oppure l’unico figlio di Goethe, morto a Roma. E si viene anche per Gramsci, ovviamente. Poi all’improvviso, inaspettata (per te che non conosci né l’elenco completo degli ospiti, né le biografie importanti), trovi la lapide di Amelia Rosselli, una delle voci poetiche più significative del secolo scorso, nata nel 1930 e morta suicida a sessantasei anni. Accade allora che i pensieri, mutevoli anche nel rimpianto, ti riportano sul Basento, dove sei nato, da dove vieni e vai ogni settimana, e ti interroghi sul perché non hai mai visitato il cimitero di Tricarico, lì dove ha trovato sepoltura più comune Rocco Scotellaro, una presenza cara nella tormentata vita della figlia dell’esule antifascista Carlo Rosselli assassinato nel 1937, insieme al fratello Nello, dai sicari di Mussolini.

Amelia e Rocco si erano conosciuti durante il I° Congresso della Resistenza a Venezia, nella primavera del 1950, e subito era nata tra loro un’amicizia intensa¹. Lui aveva appena lasciato per sempre Tricarico² .
"Rocco conosceva le vicende di mio padre Carlo Rosselli, in me vedeva rivivere alcuni suoi ideali. Avendo vissuto i primi sedici anni della mia vita esule all’estero (prima in Francia sino a nove anni, poi in Inghilterra, poi nell’America del Nord la Seconda Guerra Mondiale), rappresentavo per lui quello che per un meridionale è la Cultura straniera. Non in senso cosmopolita, ma come se io stessa rappresentassi un sogno di una cultura non provinciale, non soffocante, non pettegola. Mi disse una volta di voler lasciare l’Italia per fare l’emigrante; tanto desiderava uscire dal tran-tran della sua vita fatta di impegni. E di impegni lavorativi, che purtroppo lo stancarono anche più di quanto si sappia".
Più d’uno, insieme ad Amelia Rosselli, col coraggio di incrinare retorica e martirologi, ha testimoniato che "Scotellaro ha avuto sempre un conflitto interno molto forte tra il suo impegno civile e il suo impegno letterario". Secondo Giovanni Russo, per esempio, Scotellaro “diceva che in fondo per lui era un grande sacrificio fare il sindaco, perché è vero che si sentiva legato al mondo contadino e ai socialisti, ma sentiva di dover esprimere se stesso, aveva fretta”.

Il giovane poeta, che dal 1943 in poi aveva lavorato come organizzatore politico e sindacale “passando a piedi il Basento”, diventò sindaco di Tricarico nel 1946, a soli 23 anni, con una lista unitaria di sinistra col simbolo dell’aratro. Fu poi rieletto nel novembre 1948 nonostante quella pozzanghera nera³  in cui si riflettevano gli sconfortanti risultati delle elezioni politiche del 18 aprile 1948. “Il movimento epico dell’occupazione delle terre lo vide protagonista appassionato e tuttavia pensoso”. Poi l’8 febbraio 1950 fu arrestato per un preteso delitto di concussione chiaramente ordito dai suoi avversari politici: in quel momento “caddero tutte le maiuscole” in cui aveva creduto, come scrisse successivamente. Dopo 45 giorni di carcere, la Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Potenza lo proscioglierà. Ma poco dopo, nel maggio dello stesso anno, Rocco Scotellaro si dimise dalla carica di sindaco nella quale era stato reintegrato e partì per Roma. E da qui per Venezia: “Rocco, sindaco e poeta, era il personaggio simbolo del risveglio contadino del Mezzogiorno, l’altra faccia del movimento di liberazione in Italia, (…) approdava a Venezia giusto un mese dopo l’uscita dal carcere (…). Amelia Rosselli era da poco rientrata dall’esilio e, nonostante il nome, viveva in uno stato di sostanziale isolamento (…)”⁴ .

Rocco Scotellaro, Dopo il Premio Strega, inchiostro, cm 20x13, 1952

Quella partenza (da Tricarico), significativamente evocata nell’incipit dell’Uva puttanella, è il simbolo di tante nostre partenze (fisiche e non) dal Mezzogiorno: “Uscii per la seconda porta di casa, che mena alla parte a monte del paese, con la borsa che avevo, ognuno, dallo spiazzo di Sant’Angelo fino in campagna, mi chiese con meraviglia dove andavo, perché sapevano tutti che sarei dovuto partire e pensavano a una delle solite improvvise decisioni (…)”. Il gesto di Scotellaro che, prendendo con sé la borsa, simbolo di un altro destino e di un’altra vocazione, volge le spalle al paese, è significativo – dirà saggiamente Giovanni Caserta nel convegno di studio del 1984⁵. Forse è arrivato – sessant’anni dopo – il momento, altrettanto significativo, di tornare. Ognuno con la propria vocazione.
Ma dove tornare? Perché tornare? Come tornare? Questa nota (benevolmente accolta da un blog promosso da amici) non è un invito alla militanza politica originata da esigenze morali. È solo una segnalazione. La segnalazione di un luogo comune che si può frequentare: i comuni del Sud! Qualcuno ricorderà il titolo di una bella rivista di molti anni fa, Luogo comune, appunto. Si disse allora: con questa locuzione intendiamo un luogo ideale di confronto, uno spazio di frequentazione plurale e pluralistico, uno spazio di comunità: il contrario della banalità, il contrario del pregiudizio. Luoghi così intesi ce ne sono molti, e molti ce ne sono stati nella storia e nella geografia. Quelli del Mezzogiorno oggi rinnovano l’invito a noi tutti, ai loro stessi abitanti. Sono luoghi dove forse si può riprendere a vivere il comune. Sono contesti – la comunità quanto la municipalità – per una rinnovata azione sociale di largo respiro.

"Gli stati sono diventati troppo piccoli per le grandi cose, e troppo grandi per le piccole": è l’affermazione con la quale, anni fa, Daniel Bell prendeva atto che vecchi assetti consolidati dell’organizzazione sociale nello spazio venivano sfidati dai processi del cambiamento sociale. Da questa presa d’atto nasceva un filone di pensiero che ancora oggi (nei saggi di sociologia come nelle procedure di attribuzione dei fondi comunitari) propone la città quale nuovo pivot dello sviluppo economico e dell’innovazione sociale. Al Sud però le città sono poche. Anche per questo evochiamo il comune e il Comune, con e senza maiuscola.

Comune, pertanto, è anche l’unità amministrativa di prossimità. Comune per eccellenza, declinata al femminile, è stata anche quella di Parigi, nella primavera del 1871, cantata dalle parole del poeta Rimbaud prima che da Gaber e Pietrangeli. Lì l’autorità locale (il consiglio cittadino, in francese Commune) esercitò semplicemente il potere finché non fu vinta dalle cannonate, diventando per questo uno dei più importanti avvenimenti politici dell'epoca. La rivoluzione del 18 marzo e la proclamazione della Comune di Parigi suscitarono un’ondata di solidarietà internazionale senza precedenti; i comunardi cercarono di instaurare relazioni con altri Stati, anche se la maggioranza dei diplomatici preferì Thiers; persino l’odiato nemico tedesco sostenne il governo di Versailles contro la rivoluzione di Parigi svelando la presenza di un internazionalismo degli eserciti e degli Stati contro quello proletario.
Tutti i rivoluzionari (comunisti, socialisti, anarchici) videro la Comune come concreta esperienza di società liberata, di autentica partecipazione democratica dal basso. Prima Marx, Engels, Bakunin. Ma poi anche Lenin, Trotsky, Mao, e quelli che… la dittatura del proletariato può comportare qualche eccesso. In quale comune allora tornare? Qualche anno fa, una decina, un saggio di Mario Alcaro⁶  metteva in evidenza un Sud non fatto solo di criminalità mafiosa, lavoro nero e disoccupazione, ove era possibile “rinvenire consuetudini, modi di sentire e valori in cui rivive la grande tradizione culturale del Mediterraneo”. La cultura e la pratica del dono, il senso di ospitalità, i legami comunitari, il culto della memoria e il dialogo con i defunti, l’intenso rapporto con la natura, un archetipo materno declinabile in chiave antiautoritaria: sono le tematiche attraverso le quali l’autore invitava le comunità meridionali a “ritrovare la propria identità collocando la riscoperta delle proprie tradizioni nell’orizzonte culturale della postmodernità”.
Qualcuno – a dispetto della vulgata leghista e razzista – riteneva (e ritiene) che anche nel Sud, forse soprattutto nel Sud, sia possibile rinvenire (e accrescere!) quell’importante risorsa collettiva che chiamiamo “capitale sociale”; che sia perciò possibile ridisegnare quella mappa del tesoro⁷  – ammesso che quelli usati dai sociologi siano gli indicatori veri e veritieri – secondo la quale nella maggior parte delle province meridionali risultano meno ricche e intense “le relazioni, libere e disinteressate, che legano tra loro i cittadini di una comunità”.
Qualcuno, e noi con loro, pensava (e pensa) che quella mappa si debba ridisegnare con la partecipazione!

Ci sono poi altri comuni, contigui a quelli appena accennati, che fanno parlare di sé: sono i beni comuni, i common goods, saliti alla ribalta da qualche anno anche grazie a Elinor Ostrom, prima donna Nobel per l’economia. La scienziata statunitense ha studiato e sta studiando in particolare come gestire i “beni collettivi”, ad esempio beni strategici come l’acqua e l’energia, chiedendosi se queste cose possono essere gestite da privati o devono essere solo in mano pubblica, e chiedendosi se esiste una terza via tra Stato e mercato. E qui precipitiamo, quasi non volendo, nel dibattito dell’attualità politica. Michael Hardt e Antonio Negri (sì proprio lui, il cattivo maestro) scrivono da ultimo che bisogna andare oltre il privato, ma anche oltre il pubblico, bisogna costruire il comune⁸: “Di solito si ritiene che l’unica alternativa al privato sia il pubblico, che è tutto ciò che è amministrato e regolato dagli Stati e da altre agenzie governative, come se il comune fosse irrilevante o si fosse dissolto. (…) Nonostante tutto, tanta parte del mondo è ancor accessibile a tutti e arricchita da un’attiva partecipazione”. Qui dunque il comune è il bene comune, inteso sia come la ricchezza condivisibile del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura e, con ancora maggior precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale – sia come imperativo da perseguire fuori dall’ordine sociale dato: il bene comune che abolisce lo Stato, che rende superflua l’economia capitalistica, che cancella l’ordine costituito, senza insurrezione e finalmente senza dittatura (proletaria). “La dittatura – scrivono Hardt e Negri – non può promuovere l’educazione democratica per costruire la moltitudine perché al contrario essa insegna solo il servilismo. (…) La democrazia si impara facendola”.
Ancora una critica definitiva al capitalismo e un’osanna alla “democrazia della moltitudine”. Non sappiamo se quest’ultimo capitolo della trilogia proposta dai due originali studiosi, inaugurata con Impero e proseguita con Moltitudine, possa costituire davvero un convincente avvio del “bene comune” come alternativa al comunismo e al capitalismo. Potremmo però imparare la democrazia facendola: nei nostri luoghi comuni, nei Comuni del Sud. Quelli che – in quanto tradizioni di vita civile e di autogoverno locale – secondo Putnam sono mancati nella tradizione delle regioni meridionali. Potremmo costruire biblioteche, scuole e asili; potremmo organizzare cineforum; potremmo produrre pani di grano. Laddove possibile, potremmo promuovere liste civiche. Proprio come sembra suggerire a Vendola, in un suo recente contributo⁹ , il nostro amico Lanfranco Caminiti.

Tornare a Tricarico è tornare al Sud, senza dimenticare di portare a Rocco (che riposa sulla collina rivolta verso il Basento) il saluto di Amelia (che riposa al Testaccio), con la spudoratezza di voler tenere insieme “impegno civile e impegno letterario”, vocazioni pubbliche e vocazioni private.

Note
1. Cfr. Alessandra Giannitelli, Amelia e Rocco tra poesia e tormento, Bibliomanie.it ("Tenera amicizia, senso di protezione, amore platonico, non è facile racchiudere entro confini esatti e razionali la vera entità del legame tra i due. Molti elementi farebbero pensare ad un rapporto speciale").
2. Manlio Rossi-Doria successivamente alla sua partenza da Tricarico lo chiamò a Portici presso l'Osservatorio di Economia Agraria. Qui R. Scotellaro morì, stroncato da un infarto, il 15 dicembre 1953 "nel pieno degli anni e della sua attività di scrittore".
3. Pozzanghera nera, il 18 aprile è il titolo della poesia che R. Scotellaro scrive per dare sfogo alla rabbiosa delusione indotta dai risultati elettorali delle elezioni politiche del 1948, quando la Democrazia Cristiana conquista la maggioranza assoluta dei seggi, dando adeguata rappresentanza al blocco sociale conservatore che essi riflettono.
4. F. Vitelli, Amelia Rosselli e Scotellaro, in Trasparenze, 2003
5. AA VV, Scotellaro trent'anni dopo - Atti del Convegno di studio, 1991, Editrice Basilicata
6. Mario Alcaro, Sull'identità meridionale, forme di una cultura mediterranea, 1999, Bollati Boringhieri
7. Roberto Cartocci, Mappe del tesoro, atlante del capitale sociale in Italia, 2007, Il Mulino
8. M. Hardt, A. Negri, Comune, 2010, Rizzoli
9. Lanfranco Caminiti, Secondo me Vendola sbaglia, in Gli Altri del 15 settembre 2010

La madre di Rocco Scotellaro piange il figlio (Centro documentazione Scotellaro).
La tomba è un monumento funebre realizzato dallo Sudio BBPR (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers) a Tricarico, nel 1957, su proposta di Carlo Levi e fu finanziata da Adriano Olivetti

Aggiungi commento